martedì 29 dicembre 2009

IN VIAGGIO


Tutto questo sentire parlare di crocifissi che cascano, anniversari di muri demoliti a colpi di democrazia, storie colme di dietrologie e attori illustri, mi annoia.

Non vorrei ripetermi, chi mi segue con costanza, è a conoscenza della mia visione dell’arte profondamente antiromantica.

Quando sono approdato ad architettura ho cominciato a capire che osservavo il mondo dell’arte in maniera totalmente scorretta.
L’epoca romantica ha avuto la presunzione che l’uomo potesse inventare le cose, lasciandosi trasportare dalle emozioni e io ero nato in una culla romantica.

Invenzione e creazione.

Il duro scontro con la realtà accademica mi mise di fronte alla mia ignoranza e alla mia penuria di riferimenti iconografici, radi e senza un substrato culturale.

Una specie di estetica fatta di fogli di carta, senza nesso.

Il romanticismo non ha mietuto vittime solo sotto il punto di vista artistico, ma anche culturale.

I mezzi di informazione ci infarciscono di nozioni modellate per funzionare esteticamente, non eticamente.

Sembra di essere nelle pubblicità dei mulini candidi, dove le famiglie sono costruite ad hoc in una selezione simile ai campi di concentramento.

Biondi, sani, occhi azzurri.

Le cose accadono perché devono accadere.
I crocifissi cadono perché i chiodi sui quali li avevamo appesi, erano privi della nostra forza, che serviva a sostenerli.

Non sono le corti europee a togliere i crocefissi dalle scuole.

Papa Giovanni Paolo II non ha sgretolato il muro di Berlino, è stata bensì una collettività forte e unita, contro una parete che era indebolita.
Sbriciolata da ideali morti e sepolti da tempo.

Abbiamo sempre bisogno di un soggetto da porre sul patibolo, oppure erigere a salvatore, il romanticismo ci rende affamati di inventori.

D’altronde pensiamo per frammenti, e questi frammenti hanno bisogno di storie brevi e pochi attori.
La nostra memoria sta divenendo corta.
Carta.

In viaggio quest’estate, mi sono recato per la seconda volta alle Catacombe di Sant’Egidio
Lo consiglio a tutti, entrare nel ventre freddo e umido della cristianità ci farebbe ricordare che tutto quest’odio che sentiamo nei confronti della chiesa, non può che avere radici deboli.
Trovarsi di fronte ai resti del passaggio di martiri che hanno lottato, morti credendo in un uomo che non avevano mai conosciuto, è una sensazione forte anche per un non cristiano.

Questa sensazione da sola riesce a spazzare tutto ciò che è stato fatto da uomini di chiesa deboli, plagiati da catene troppo corte, pensate per animali e non per uomini in carne e ossa.
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Ascoltando:
Consorzio Suonatori Indipendenti, Ko de mondo, 1994

lunedì 21 dicembre 2009

PIU' SU


Dopo la crisi globale proveniente dagli Stati Uniti, un altro nemico della spinta economica è Dubai, con il congelamento dei debiti richiesto dalla Dubai World.

Qualche uccellaccio del malaugurio cerca di rendere credibile la teoria della “maledizione dei grattacieli” ideata da Andrew Lawrence e ripresa in mano per l’occasione da Mark Thornton.

Sembrerebbe, infatti, che ogni volta che un grattacielo raggiunge un record di altezza, questo sia presagio di un crollo della borsa del paese che lo ospita.

Come se questi alti ed aguzzi edifici si innalzassero per far scoppiare le leggere bolle economiche.

Spilli premuti su palloncini.

Anche San Gimignano, la città delle torri, vide il suo declino economico dopo la moda della “casa torre”.
Negli anni ne furono erette settantadue, anche se oggi ne sono visibili solo sedici.
Agli inizi del cinquecento, i visitatori di questo bene protetto dall’UNESCO, potevano godere della vista di una moderna Manhattan.

Oggi sembra che questa tipologia edilizia sia portatrice di sfortune.

Peccato, noi architetti siamo sempre stati attirati dalle torri.

Saranno i rimandi ai dettami lecorbuseriani, saranno le loro forme semplici, sarà che tali edifici segnano il territorio come nessun altra tipologia.

Gli architetti spesso sono egocentrici.

I grattacieli sono degli enormi menhir che infilzano il pianeta, chissà, seguendo più o meno le rotte farneticate ne “Il Pendolo di Foucault” di Eco.

Giganteschi falli eretti a dimostrare il vigore fisico di una società sana, (ri)produttiva.

In Cina stanno progettando torri vertiginose, la Shanghai Tower dovrebbe raggiungere i centoventotto metri, non certo un record, ma da mozzare il fiato.

Nonostante il nostro “Italians do it better” e il fregiarsi di innate doti amatorie, nel nostro belpaese non abbiamo mai cercato di competere in costruzioni di questo tipo.
Le nostre capacità ingegneristiche ci sono state sempre invidiate, dalla diga del Vajont alle opere di Pier Luigi Nervi, ma i grattacieli ci hanno sempre intimorito.

Le nostre torri sono state sempre proporzionate, forse un po’ tozze rispetto alle leggere linee contemporanee.

Probabilmente il nostro popolo ha sempre pensato che ci fosse una giusta proporzione tra la lunghezza della torre e le palle che ci stanno sotto.

La giusta proporzione spesso è anche solidità.

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Ascoltando:
Renato Zero, Icaro, 1981

domenica 6 dicembre 2009

THE MODERN DANCE


Premetto che non sono mai stato un amante della fantascienza, anche se, da adolescente, la curiosità mi aveva spinto verso la biblioteca di famiglia.
L’alto mobile in legno scuro, oltre a contenere l’opera completa di Asimov, includeva anche la saga di Dune e decine di volumi di racconti ad opera dei più svariati autori.
Assaggiando di tutto un po’, come mi è solito fare, negli anni mi sono dotato di un’infarinatura letteraria che comprende qualche tomo dei succitati, oltre ad alcuni romanzi acquistato da me.

Ieri sera, decisamente provato da una settimana d’inferno, mi sono dedicato alla visione del capolavoro di Ridley Scott.
Erano trascorsi molti anni dall’ultima volta ma, come sempre, mi hanno colpito le scenografie oniriche e ricche di particolari, il solitario appartamento colmo di pupazzi di J. F. Sebastian e la costruzione dei personaggi che si muovono all’interno della pellicola.

Un’idea mi continuava a ronzare per la mente.

Continuavo a immedesimarmi in mio padre, a riflettere su cosa aveva significato per lui, grande amante del genere, l’avvento dei libri di Asimov, Dick e pellicole come queste, senza ombra di dubbio stimolanti.

Le idee , i sogni e i colori che bollivano nelle menti degli adolescenti degli anni ’50 dovevano essere molto simili alla cinematografia che ne è scaturita.

Gli scrittori immaginavano mondi nuovi, differenti forme di aggregazione sociale e struttura politica, flussi di individui che si muovevano liberamente nelle tre dimensioni, il tutto condito da una poetica decadente.

A mio parere, la debole fantascienza che riusciamo a malapena a realizzare oggi, è amaramente tangibile e sterile.
Romanzi e pellicole sono pervase da arcani complotti, antichi misteri spesso religiosi oppure, in alternativa, catastrofi imminenti e prossime.

Non sento più parlare di futuro.

E’ come se, avendo costruito troppo, ci fossimo privati della visione di un orizzonte.

Credo che l’architettura di Zaha Hadid, per quanto possa essere o no in sintonia con la sensibilità di chi la fruisce, sia quanto più vicino all’idea di futuro che la nostra società ha a disposizione.

Attraverso i suoi progetti, essa traccia solchi, trasformando ciò che precede le sue forme liquide e dinamiche, in immagini vetuste di un’epoca passata.

Come se la sua opera riuscisse a depositare un velo di polvere sugli edifici che la circondano.

A pensarci bene suscita rabbia il fatto che non si riesca a porre un traguardo da raggiungere, una sola immagine di futuro, che sposti l’orologio avanti di cinquant’anni anticipando gli eventi.

La mia paura è che la nostra immagine del futuro non sia molto dissimile da come vediamo il mondo oggi, con il risultato di lasciarci trascinare dalle tecnologie che vengono sviluppate.

Senza sognarle.

Con il senno di poi, possiamo tranquillamente asserire che pietre miliari come Nostradamus, Burgess e Verne ci avevano azzeccato.

Quale sarà il nostro contemporaneo visionario, chi potremo additare come profeta tra un secolo?
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Ascoltando:
Pere Ubu, The Modern Dance, 1978

domenica 15 novembre 2009

BLINDFOLD


Anni fa, sulla magnifica rubrica “Forse tutti non sanno che...”, lessi che gli Inuit hanno sviluppato nel corso dei secoli e prima di noi, una tradizione paradossalmente simile al nostro modo di vivere.

Fare di necessità virtù.

Visto che per parte dell’anno sono costretti ad una vita completamente al buio, si sono abituati a posizionare gli oggetti all’interno degli igloo in maniera metodica e univoca.

Sempre nello stesso punto.

Questo permette loro di trovare sempre ciò che cercano in totale assenza di luce, anche se non sono nella loro abitazione.

Ultimamente, parole come verità, indignazione e risveglio, sono state utilizzate da noi in maniera massiccia per ripetuti notiziari, opere cinematografiche e discussioni nella rete.

Come se per anni gran parte della popolazione fosse stata narcotizzata.

Credo che gran parte delle cose che ci circondano, siano specchio di questo atteggiamento cieco che abbiamo avuto nei confronti dell’ambiente, della politica e della comunicazione dei mezzi di massa.

Come ha illustrato ultimamente in maniera limpida Marco Paolini ne “I Miserabili”, per decenni ci siamo fatti abbindolare da apparecchi elettronici, oggetti di uso personale atti ad una gratificazione egoistica, che ci ha fatto perdere il gusto di saper vedere e partecipare.

Alla stessa maniera degli Inuit, abbiamo posizionato a portata di mano cose e persone che non necessitavano di molta luce per essere visti.
Individuati.

Se scegliamo forme di comunicazione semplici e superficiali, se posizioniamo emeriti imbecilli vicino a noi, dentro uno schermo televisivo oppure su un palco, abbiamo deciso di essere ciechi.

Nella cecità ci meritiamo di tutto, è il nostro scotto da pagare per una vita tranquilla, dove ogni cosa è al suo posto.

E’ usanza comune, utilizzare una sveglia per svegliarsi la mattina, ma dopo un po’ di tempo che la sveglia ha sempre lo stesso suono, cominciamo ad assuefarci.
La soluzione allora è quella di cambiarne la suoneria, oppure posizionarla in un luogo impossibile da raggiungere allungando semplicemente la mano.

In questo clima di risvegli e torpori, di immobilismo e indignazione, dovremmo cercare tutti di fare un po’ di disordine nella nostra vita, spostare oggetti e certezze.

Il minimo che ci potrebbe succedere è un allungamento delle braccia, in modo da poter cogliere oggetti e stimoli sempre più lontani.
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Ascoltando:
Morcheeba, Big Calm, 1998

martedì 3 novembre 2009

PYRAMID SONG














La struttura gerarchica nel mondo del lavoro si è evoluta negli anni.

Inizialmente il modello piramidale ha segnato gran parte della storia dell’industria e dei servizi, dalla sua nascita fino anche ai giorni nostri.

Gli industriali del nordest sono innamorati di questo sistema.

Nella struttura piramidale una persona detiene il controllo totale dell’azienda, ogni decisione passa per la sua scrivania.
Tutto questo genera, nel diretto interessato, una quantità incredibile di stress, che egli sfoga sull’inerme famiglia, la segretaria, i transessuali, le feste in discoteca e le vacanze in paesi esotici.

Successivamente si è cominciato a capire che tale struttura non poteva perdurare, il boss in questione ha finalmente deciso di utilizzare la famosa parola “delegare”.
Vari capi progetto si occupano di settori diversi, anche se ciò non vieta al titolare di continuare ad amministrare completamente il lavoro dell’azienda, risparmiando le sfuriate solo a poche persone, che poi scaricano lo stress in maniera piramidale come sopra descritto.

A rimetterci, i soliti “paria”, gli impiegati fantozziani.

Le ultime forme di lavoro prevedono una struttura a rete, il net working, in cui gli intrecci e le interconnessioni tra le figure più disparate si interfacciano continuamente.
Probabilmente questo sistema, che fisicamente non conosco, porta a uno stress generalizzato.
Immagino un marasma di persone che perdono tutti tempo a capire chi sta sopra e sotto, invece che lavorare.

Recentemente ho letto un libro sull’organizzazione aziendale, materia che tocca il mio lavoro in maniera marginale, ma che mi è utile per capire i processi che regolano le relazioni in un sistema produttivo.

Mi è così tornato in mente la famosa propaganda di Beppe Grillo, quando richiamava all’attenzione il fatto che, formalmente, i parlamentari sono nostri dipendenti e noi siamo il governo.

Non sono un esperto di politica, il mio interesse verso la storia del mio paese è sorta troppo recentemente per potermi essere informato come vorrei.
Quello che stiamo vivendo ora in Italia è formalmente la fotocopia dei processi descritti da Chomsky tempo fa e fa Walter Lippmann a inizio secolo (http://www.marforio.org/appunti/storiaPedagogia0708/IL%20POTERE%20DEI%20MEDIA-CHOMSKY.doc).

Oggi in Italia, una rete di persone che comunica continuamente le proprie idee tramite il web, viene chiamata periodicamente a mettere una croce su una scheda.
Tale croce determinerà quale delle compagini politiche eleggerà il proprio leader, il quale sarà alla guida del nostro paese fino a fine legislazione o crollo del governo.
Possiamo osservare che l’attuale leader oggi chiede sempre più poteri, anche super poteri, cercando di condensare il tutto nelle mani di un’unica persona che deciderà tutto.

La conclusione che possiamo trarne è che la struttura del nostro governo evolve in maniera diametralmente opposta a quella del mondo del lavoro.

Strano modo di muoversi, per un presidente che di aziende dovrebbe capirne qualcosa.
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Ascoltando:
Radiohead, Amnesiac, 2001

sabato 17 ottobre 2009

COMFORTABLY NUMB


All’inizio questo blog costituiva semplicemente uno sfogo ai miei dubbi sentimentali, l’avevo considerato come una cura.
Sin da adolescente, infatti, ero solito sfogare ciò che mi esplodeva dentro tramite la scrittura.
A rileggerle, quelle righe confuse, trasudano di istintività e lacrime, molto lontane dai “pensieri lasciati a macerare” che state leggendo in questo momento.

Recentemente però il mio interesse per i mezzi di informazione si sta facendo quasi ossessione, il risultato è che le parole hanno poco tempo per sedimentare e finiscono subito sul web.

Ho appena finito di guardare, come ogni giovedì, la trasmissione “Anno Zero”.
Osservandola bene, non mi è sembrata tanto differente da tutti i salotti, pubblici e privati, che animano questo paese.
Piuttosto, ciò che la contraddistingue è una conduzione che non permette troppe sovrapposizioni di voci, urla e schiamazzi, ma piuttosto concede la parola a tutti senza filtro.

Mentre il post precedente parlava del modo di sentire la politica in Italia, una metafora calcistica di fazioni, oggi vorrei spostami a centrocampo.

Attualmente l’opposizione, non riuscendo a proporre un’alternativa credibile, continua a far pendere l’ago della bilancia verso il signor b.

Vedo un’Italia che sta attraversando una crisi alla stessa stregua di un qualsiasi paese che poteva “permettersi” una crisi.

Ci sono nazioni infatti che sono costantemente in crisi.

La maggioranza, qualunque sia, secondo me deve essere sostenuta.
Questo perché l’Italia e gli Italiani, a mio avviso, non riuscirebbero a reggere un cambio di governo.

L’economia soffocherebbe, di fronte al consueto periodo di stallo che serve all’insediamento.
Non dimentichiamo poi il classico momento, in cui il governo entrante dice che i conti pubblici erano falsati e che ci si dovrà rimboccare le maniche, il tutto in un clima di grande scontentezza.

Per tutta l’estate mi è balenata in mente la scena cardine del film “Il Divo”, quella del monologo di Servillo tanto per intenderci.
Per chi non l’avesse ancora visto, consiglio una breve ricerca su Youtube, giusto per avere un sunto dell’immagine prima repubblica italiana.

Ho cercato di immedesimarmi in un mio connazionale della prima repubblica.
Sono un italiano che suda in un’Italia che cresce a vista d’occhio, dove gli investimenti sono moltissimi perché il popolo è ancora da plasmare, da educare al “produci guadagna e compra”.
Carne fresca.

In cima alla piramide umana, c’è un potere centrale che narcotizza.

Un governo che vive di tangenti, di vacche grasse da mungere all’insaputa del popolo.
Un parlamento di politici che non rispetta le leggi, uomini che militano in gruppi e sette segrete che mettono in pericolo la sicurezza dello stato.

Non riesco neanche ad immaginarmi cosa succedesse sotto le coperte di questi personaggi, visto il clima che imperversava e ciò che è venuto alla luce nell’ultimo periodo.

Probabilmente la notizia di una escort a Palazzo Grazioli sarebbe apparsa come una marachella da nulla.

Insabbiata.
Forse la escort sarebbe stata insabbiata anche fisicamente.

Messa a tacere come le collusioni tra stato e mafia, i collegamenti tra i politici e le stragi.

Si stava bene, semplicemente perché la legge era incatenata e i processi venivano condotti dove voleva il governo.
La stampa rimaneva omertosa, oppure non parlava perché le informazioni venivano fatte sparire.
Le aziende non sapevano cosa volesse dire pagare le tasse e il nordest cresceva anche grazie a migliaia di piccole e medie frodi.

Tornando a questo attuale clima di rabbia, credo che avrebbe senso solo se quest’indignazione portasse a qualcosa.

Agire.

Come se questo sdegno servisse a farci camminare a testa alta dopo anni di umiliazioni.

Tanto varrebbe rimanere “piacevolmente insensibili”.
Avremmo un aspetto più dignitoso.
La rabbia da sola non serve a nulla, se non a renderci infelici.
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Ascoltando:
Pink Floyd, The Wall, 1979

giovedì 8 ottobre 2009

LOVE AND HATE


Dopo la notizia della bocciatura del lodo Alfano e le rispettive reazioni dei media, continuo a stupirmi della visione calcistica della politica in Italia.

Mi connetto a Facebook dove gli strilloni delle testate on-line vengono osannati o maledetti a seconda del colore della propria bandiera o degli ideali.
Come se votare PD o PDL ti facesse partecipe della vita politica.

Ci emozioniamo anche di fronte agli exit pool, alle decisioni in parlamento per un gusto tutto egocentrico.
La capacità di disegnare una croce, non ti da il potere ma l’illusione di partecipare ad un ideale.

Io ho sogni, non loro.
Io.

Nella politica e nella storia di questo paese non contiamo nulla, perché non siamo partecipi di questa democrazia che è sempre più vicina ad una dittatura che puzza di marcio da tutti i pori.

Perlomeno un regime assolutista dichiarato, farebbe bene a questa Italia caciarona, questa “Italia Cafonal” come la definirebbe D’Agostino, questa Italia in cui se compri venti quotidiani leggi venti notizie diverse.

C’è odio nelle strade, si urla fascisti e comunisti, avendo perso completamente il senso di queste parole.
Respiro rabbia e quando qualcuno non la pensa come te, viene additato come un ignorante, senza neanche lasciargli il tempo di parlare.

Non abbiamo più il tempo di ascoltare.

Indiscriminatamente a desta e a sinistra ci si arrabbia inutilmente, ognuno crede di avere la pietra filosofale ben stretta in mano.

Si citano frammenti di storia, decontestualizzandoli, perché la storia non la conosciamo più.

Si parla di libertà di stampa, urlandola in piazza, dimenticandoci che forse proprio oggi c’è una pluralità assoluta, libertà che durante gli anni di dominio di democrazia cristiana non si poteva neanche immaginare.

Poco mi importa se Emilio Fede seleziona solo le informazioni che gli interessano.

La televisione non è un mezzo di informazione e non lo è mai stato.

Rifletto, una persona che ha un ruolo istituzionale, forse dovrebbe essere lasciato in pace, congelando i processi che lo riguardano, per lasciargli il tempo di lavorare per lo stato.
C’è sempre tempo per giudicare qualcuno.
Poi ricordo che alla mia iscrizione all’Ordine ho dovuto dichiarare di non avere nessuna causa e processo pendenti, cosa che giudico assolutamente giusta.
Allora che senso ha che io debba rimanere integerrimo, mentre un parlamentare o il presidente del consiglio possono tranquillamente delinquere senza essere perseguiti?
Certo, qualcuno potrebbe dire che il parlamento è lo specchio del popolo e il popolo delinque, a destra e sinistra, ma io sono un sognatore e penso che un politico dovrebbe essere una persona perbene.

Sarà il mio rapporto così distaccato con lo sport, con il calcio, ma il tifo non fa per me.

Non ho mai avuto lo spirito di competizione, la voglia di urlare, di arrabbiarmi, di odiare e alimentare questo clima di ostilità, di cercare di imporre le proprie idee.

Cerco solo di ascoltare e aprire il cuore.
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Ascoltando:
Ryuichi Sakamoto, Sweet Revenge, 1994

domenica 20 settembre 2009

WHAT ARE THEIR NAMES PART 2


















Presumibilmente Sgarbi deve avermi mosso qualcosa dentro lo stomaco, non si spiegherebbe altrimenti che, sul medesimo articolo, mi sono ritrovato a scrivere ben due post (vedi sotto).

Uno sarebbe risultato decisamente troppo prolisso.

In parole povere, all’interno dello stesso articolo, si proponeva di utilizzare i soldi destinati all’edificazione della nuova biblioteca (300.000.000 di eurini) per acquistare edifici storici e libri.
Secondo il critico “le biblioteche nuove come questa...sono come le moderne architetture religiose, senz’anima e vita rispetto alle chiese gotiche, rinascimentali e barocche” (Il Giornale, sabato 29 agosto 2009).
In parole povere, la proposta è di utilizzare edifici storici, per impedire di costruire edifici culturali asettici.

Una persona che utilizza il termine “moderno” per intendere “contemporaneo”, a mia modesta opinione non vale la pena di essere ascoltata, soprattutto se ad utilizzarlo è uno studioso che si fregia di titoli e onorificenze.

Probabilmente nessuno gli ha spiegato che per architettura moderna, come per l’arte, si intende il periodo storico compreso dal 1492 in poi.
All'università mi avrebbero crocifisso in sala mensa per un errore del genere.
Quindi con architettura moderna, sta tirando in ballo anche Andrea Palladio e la sua celebre villa Capra detta “La Rotonda”.

Pensando a queste parole, mi sembra quasi di sentire il vociare di due attempate signore di fronte al duomo del paese, con le borse della spesa: “Ma sa che è proprio brutta questa chiesa tutta moderna e di cemento?”

Magari il paese è Longarone e la chiesa è quella di Michelucci.

La bellezza di un edificio storico, non risiede nei suoi decori, nei suoi affreschi o nelle sculture che ospita, ma nel rigore e nella sacralità che riesce a trasmettere.

Questo è solo frutto dell’uso della luce, delle proporzioni e degli spazi.
Il resto è, appunto, decoro.

La chiesa di Michelucci potrà anche non essere paragonabile a San Pietro come maestosità, ma l’atmosfera che si respira quando si varca l’ingresso, è quella di trovarsi realmente nella casa di Dio.

Colgo il disappunto di Sgarbi e, seguendone il pensiero, faccio una provocazione per risolvere un problema inesistente.
Non sono stato in molte biblioteche, ma quella che in assoluto mi ha colpito di più è stata la Biblioteca Marciana di Venezia.
Tale edificio si trova a Venezia ed è attualmente occupato da un’altra istituzione, allora perché non costruirne uno identico a Milano?
Non hanno forse ricostruito il Teatro la Fenice identico a com’era e dov’era prima del tragico incendio?
Sarebbe semplicissimo, un rilievo preciso delle strutture murarie, del mobilio e poi via alla realizzazione.
Si potrebbe addirittura invecchiarne i muri artificialmente, forare il legno degli scaffali per simulare il lavoro dei tarli.
L’edificazione ad hoc una serie di edifici storici potrebbe essere pianificata, per fare contenti coloro che credono che la bellezza di un edificio risieda nella suo aspetto classicheggiante e consunto.

L’architettura come diceva Le Corbusier, è fatta per commuovere.
Non pretendo che tutta l’architettura debba commuovere, ma perlomeno sono d’accordo che gli edifici religiosi, o connessi alla cultura, abbiano l'obbligo di smuovere sentimenti.

Non so se un affresco di Giotto possa portare il fedele più vicino all’estasi del crocifisso di San Giovanni Rotondo, né se la basilica di Assisi sia più vicina a Dio di quella di Renzo Piano.

Se il diavolo si cela nei dettagli, Dio non so dove si celi in architettura.

Probabilmente nei volumi puri e semplici bagnati dalla luce dei silos di Le Corbusier.
Ai quali, se volete, come in una torta che si rispetti, possiamo aggiungere come guarnizione dei motivi, trame e decori, ma anche dipinti.

Buon appetito.
Amen.

martedì 15 settembre 2009

WHAT ARE THEIR NAMES - PART 1


Giorni fa, su “Il Giornale” ho trovato un articolo di Sgarbi, il quale chiedeva al ministro Bondi di fermare il progetto della biblioteca Europea di Milano firmato da Wilson.

Ora, su questo spazio ho più volte criticato sia il personaggio che il suo modo di porsi, a mio avviso così caricaturale da presentarsi in bilico tra il comico e il tragico.
Mi piacerebbe poter discorrere con lui in tranquillità, al di fuori degli schermi e schemi televisivi, per vedere dove finisce il personaggio e inizia la persona.
Per anni l’ho seguito, lo trasmettevano il pomeriggio quando tornavo a casa finite le lezioni al liceo.
Con la sua rubrica così pacata e il suo modo semplice di spiegare le cose, era persino vicino al modo di porsi di Philippe D’Averio.
Personaggio quest’ultimo che, senza urlare, riesce a farsi ascoltare.

Tornando all’articolo, ero curioso di capire quali fossero i suoi metodi di valutazione di un edificio, insomma con quali criteri aveva potuto misurare la qualità di un progetto.
I termini utilizzati per avvalorare la sua tesi sono stati i seguenti: “bruttezza”, “probabilmente un edificio funzionale ma mostruoso”, “una struttura banale e sciocca”, “incastri di volumi di concezione architettonica attardata come nei peggiori anni Settanta”.
Se dovessimo attenerci all’architettura classica, ma anche una piccola parte parte di quella contemporanea, potremmo disquisire su degli elementi architettonici.
Potremmo definire se la facciata è ben composta, se è equilibrata, se l’edificio si rapporta con l’esistente e quali elementi ha mutuato, rimescolandoli in una nuova composizione, più o meno gradevole.
Purtroppo gran parte dell’architettura contemporanea non è più costituita da queste componenti, quindi il giudizio del noto critico d’arte è oggi paragonabile a quello della nota casalinga di Voghera, magari appassionata lettrice di "bravacasa".

Tutto è demandato al “gusto”.

Se non ci sono più elementi con un nome proprio, se un edificio non può più essere descritto con i termini convenzionali, è impossibile costruire una critica credibile, elaborare una valutazione che tenga conto del bagaglio culturale di una persona.

Basta leggere qualche rivista di settore per capire che la critica in architettura oggi è praticamente morta.

Vi sono centinaia di periodici patinati che propongono gli stessi progetti a distanza di mesi l’uno dall’altro, semplicemente descrivendoli.

Oggi l’architettura stampata a mio avviso fa quasi più soldi di quella costruita.

Quando ero all’università, un mio docente si scaldava quando gli studenti non si ricordavano i nomi degli elementi architettonici.
Affermava che se un architetto non conosceva il significato di dado, metopa, trabeazione, era paragonabile a un chirurgo ignorante del nome e delle funzioni degli organi del corpo umano.

Non avrebbe potuto operare.

Oggi possiamo dire tranquillamente che nell’architettura contemporanea sono spariti gli organi, le ossa e anche i muscoli, ma è rimasta una splendida pelle.
Splendida splendente.
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Ascoltando:
David Crosby, If I Could Only Remember My Name..., 1971

martedì 25 agosto 2009

A WARM PLACE


Pochi giorni fa, passeggiando per Roma, mi sono sentito addosso quella splendida sensazione di “calore familiare”, la stessa che hai dentro, quando sei nella tua città.
E’ strano perché era un sacco di tempo che non vi tornavo, e la sensazione si è sprigionata già dal secondo giorno di permanenza.

Premetto che quando è necessario fare il turista, non mi tiro indietro, girare così con una piantina in mano non è né un’onta, né un disonore per me, ma l’unico modo per conoscere meglio una complicata metropoli.

Quasi senza meta, a parte due visite obbligate, ho così vagato per la città eterna.

Era la prima volta in cui giravo liberamente per la capitale, libero dagli impedimenti di insegnanti o familiari, i quali a suo tempo avevano giustamente ostacolato la possibilità di vagare indipendentemente.
Troppo piccolo.

Gli occhi invece, questa volta maturi, non si sono soffermati un attimo, scorrevano da un edificio ad un altro.
Turbinii di ricordi e nozioni si sovrapponevano nella mia mente.
Figure di artisti e pontefici, nobili ed architetti che incontrandosi idearono quei capolavori.
A volte un colonnato era tamponato per diventare un edificio, ben disegnato ed armonico, in un’epoca in cui armonico fortunatamente non significava simmetrico, altre volte la traccia di un rudere diventava lo spunto per un nuovo progetto.

Oggi la ricucitura di ruderi è un concetto avulso dalla nostra cultura, sembra che qualsiasi opera del passato debba essere inguainata e messa sotto teca per non essere intaccata da progettisti e artisti contemporanei.

La storia è costellata di edifici trasformati, ampliati, demoliti e ricostruiti.

Palazzi mutilati e tamponati, sconsacrati e resi cristiani, nobilitati e spogliati di ogni decoro, a volte per mano di artisti, a volte per causa di selvaggi, i quali agivano in entrambi i versanti.
Dipinti di tutto rispetto furono così coperti di una mano di bianco e nascosti per sempre, a causa del costo eccessivo di una tela preparata.
Si cancellavano mirabili affreschi con una mano di calce per fare spazio a nuove raffigurazioni più fresche e moderne.

Mentre in passato il tutto era attuato, certo non senza polemiche, ma con una discreta semplicità, oggi studiosi in cerca di fama cercano l’occasione di mettere il becco su qualsiasi inezia sia da realizzare all’interno del nostro patrimonio artistico.

Sgarbi sembra sia sempre dietro l’angolo.

Una tendenza questa, che colpisce anche la nostra classe politica, la quale attribuisce sempre gli errori alle gestioni precedenti.
Non è un modo propositivo di relazionarsi con il passato.

Non siamo più capaci di agire per frammenti, di completare puzzle nei quali mancano dei pezzi.

Innioranti siammo.

Mi sembra quasi assurdo oggi, pensare che gli artisti di tutte le epoche si siano messi alla prova, nel completare composizioni di musica classica, edifici sacri, scenografie e dipinti di tutte le epoche, senza la paura di cimentarsi con il passato o con il proprio maestro.

Per ergerci, dovremmo avere l’umiltà di imparare a conoscere la storia e sederci sulle spalle di un gigante, al posto di fingere stature inesistenti, utilizzando come miseri ingredienti la nostra ombra in un pallido tramonto e un paio di scarpe col tacco.
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Ascoltando:
Nine Inch Nails, The Downward Spiral, 1994

giovedì 23 luglio 2009

FLUX + MUTABILITY


E’ passato un secolo da quando Adolf Loos definiva l’ornamento un delitto.
In campo architettonico questo segnava una rivoluzione, la progettazione minimale e modulare avrebbe marchiato gli anni a venire.

Come in ogni rivoluzione artistica che si rispetti, si cercava di sfuggire ad un passato caratterizzato da orpelli, vetrate colorate e forme naturalistiche, i progettisti erano sempre all’inseguimento di effimeri stili, i quali comunque cominciavano a vacillare e a perdere forza.
Per farla breve, il brutalismo in architettura, il design semplice e l’inseguimento di forme pure lecorbuseriane hanno a poco a poco ucciso generazioni di artigiani che si tramandavano saperi e conoscenze da centinaia d’anni.

La noia però è una costante dei giorni nostri e l’impeto dell’architettura barocca, decretato dalla necessità di stupire e provocare l’estasi nel fedele, si ripropone ai giorni nostri con un linguaggio diverso ma con le stesse aspettative.

Le trame intricate degli impianti planimetrici di Eisemann, le strutture antropomorfe di Calatrava, le forme spezzate degli edifici di Zaha Hadid e Steven Holl, sovrappongono geometrie ad altre geometrie con l’intento di lasciarci a bocca aperta.
Vi sono matrici che si ripetono, si accavallano, mutano per generare configurazioni complesse che la nostra mente non è più in grado di elaborare, se non attraverso processi stocastici.

Migliaia di cellule si replicano e mutano, come malattie incurabili, trasformandosi in arte agli occhi del fruitore contemporaneo.

Ultimamente mi è capitato in mano un progetto ampio per una città del Levante.
Sono quei progetti che le riviste di architettura non pubblicano, i direttori e le redazioni sono ancora legati all’urbanistica di Gregotti tutta cardo e decumano, altrimenti strizzando l’occhio alle ultime tendenze.

Sono fermamente convinto che una collettività, che ha una visione completamente diversa di noi del mondo, non abbia bisogno di città progettate con la carta millimetrata.

Se la nostra mente non riesce a concepire disegni articolati, il progetto si riduce all’abbozzo di un accampamento romano.

Trasporlo in Cina è uno stupro bello e buono.

Come è possibile disegnare una città su una griglia regolare, in un paese che per secoli ha rifiutato la linea dell’orizzonte come scelta di rappresentazione?

Mi incanta sognare che il masterplan che mi è capitato in mano, sia una forma di protesta, la necessità inconscia di disegnare paesaggi da parco giochi, luoghi dove la complessità è generata dal caos.

Nessuna regola apparente se non quella di un equilibrio instabile.

Forse una nuova forma di contrattacco consiste nel fuggire la ripetizione: progettare al limite della follia edifici fini a se stessi che non dialogano con gli altri.

Nascono piccole bomboniere dalle facciate che si sovrappongono, velature e decori replicati che ruotano e traslano per rendersi all’apparenza nuovi.
Si muovono e respirano assieme a chi utilizza queste macchine contorte.

Ci dimentichiamo che la bellezza della complessità è un lento sovrapporsi di vuoti e pieni, spazi e volumi, visuali e occlusioni, fatte di materiali che invecchiano in maniera non omogenea.

Altre piccole Mestre stanno nascendo in tutto il mondo, se un edificio da rivista patinata si costruisce vicino a baracche in India, dall’altra parte del pianeta un ponte viene costruito in un paese in cui mancano le altre infrastrutture.

Le contraddizioni sono frutto di una miope visione.

La nostra idea della progettazione articolata è limitata semplicemente perché non siamo in grado di immaginare tempistiche che vanno oltre la data della nostra morte.

Questo è un problema che in tutte le civiltà e generazioni precedenti alla nostra non si era mai posto.

Il cuore del nostro essere effimeri, è la paura di non avere abbastanza tempo per porre la nostra firma su questo capolavoro che è il mondo.

Come bambini svogliati in gita, imbrattiamo così un’opera d’arte che la nostra ignoranza ci impedisce di comprendere.
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Ascoltando:
David Sylvian & Holger Czukay, Flux + Mutability, 1989

mercoledì 15 luglio 2009

CARA


Grazie a un diverbio scoppiato in rete tra me e una mia amica, mi sono rimesso a ragionare sul tema del viaggio.

La partenza come necessità per spiccare il balzo.

Spesso sui mezzi di informazione si sente parlare di fuga di cervelli, di luminari che fuggono dall’Italia in cerca di un lavoro più decoroso.
Penso che per un ricercatore questo sia necessario, l’Italia in questo campo è un po’ il fanalino di coda.

Per quanto riguarda infinite altre professioni, ritengo che la rete globale abbia accorciato le distanze, tanto che essere a Voghera o New York sia quasi la stessa cosa.

Posso essere d’accordo sulla questione che rimanere nello stesso luogo, magari in un paesino di provincia, sia poco stimolante.
Ma il problema del poco stimolo è dentro noi, non nel luogo che ha invece stimolato generazioni intere.

Il piccolo Bastian leggeva il libro “La Storia Infinita” nella soffitta della sua scuola.
Con lo scorrere delle parole, delle pagine, a poco a poco gli si apriva un mondo nuovo, una storia completamente diversa dalle altre, in cui l’ultima pagina non significava la fine del sogno.

A volte mi sento come il piccolo personaggio principale di questa storia.

Fisicamente non ho mai viaggiato molto, anche se ho fatto molti chilometri guardando il mondo scorrere dai finestrini dai mezzi pubblici di questa megalopoli padana.

Data la mancanza di mezzi e di genuini stimoli per partire, ho sempre viaggiato molto con la mente.

Intere storie si aprivano nei libri che leggevo in spiaggia.
La strada del ritorno non era mai quella dell’andata.
Passeggiando per la stessa strada, dopo infinite volte, scovavo un dettaglio nuovo.
Tentavo di trovare nuovi colori e forme nel paesaggio che si proiettava dietro la finestra della mia camera.
Cercavo di conoscere gente nuova, angoli nuovi.

Sono giochi che faccio ancora.

A volte basta farsi uno sgambetto da soli, per osservare una cosa che era sotto il nostro naso da tempo.

Se è vero l’aforisma che ho trovato qualche giorno fa in rete “La felicità è una direzione e non un luogo”, non si parte per trovare qualcosa di nuovo.

Il tema è il viaggio e la meta.

Proseguendo nel ragionamento, la meta sarà felicità per poco tempo però, perché parte integrante del viaggio.
Appena diverrà “luogo” sorgeranno i problemi di prima.

Allora servirà un nuovo viaggio e una nuova meta.
Nuovi viaggi e nuove mete.

L’aforisma non specifica quale sia la direzione della felicità, ma semplicemente il fatto che andare in una direzione significhi essere felici.

Il mio è un viaggio continuo.

...ma so già cosa pensi, tu vorresti partire
come se andare lontano fosse uguale a morire...

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Ascoltando:
Lucio Dalla, Dalla, 1980

giovedì 18 giugno 2009

TEMPO


Il tempo umano non ruota in cerchio ma avanza veloce in linea retta. E' per questo che l'uomo non può essere felice, perché la felicità è desiderio di ripetizione.
(Milan Kundera)

venerdì 5 giugno 2009

WEATHERED WALL

Nel lungo fine settimana appena trascorso, ho avuto la fortuna di poter trascorrere qualche giorno in due poetiche località.
La prima è Poffabro, un borgo in provincia di Pordenone popolato da neanche duecento anime.
Nonostante la dimensione microscopica, grazie alla sua architettura vernacolare e spontanea, Poffabro viene visitata ogni fine settimana da molti turisti.
Passeggiando per le viuzze tentacolari che si sviluppano tra le abitazioni, si può percepire che la divisione tra il privato e il pubblico si fonde in un unico spazio comune, comunitario, spezzato da splendide e materiche facciate.

Forme pure stagliate nella roccia e nel legno.

La seconda località è stata Forni di Sopra, situata ben più in alto, ad una quota di quasi mille metri.
L’attinenza che ho trovato con Poffabro è la cura con cui hanno ricostruito, ristrutturato e ricucito un borgo con grande logicità e continuità storica.
Certo, non si può nascondere che qualche esempio di costruzione ignara del luogo e del contesto può essere individuata in entrambi i paesi, ma sono eccezioni sporadiche che non fanno altro che confermare la regola.

Le abitazioni sono realizzate con pochi elementi, riconoscibili.

Mi piace pensare che, come nell’architettura classica, oggi questi contemporanei progettisti si muovano tra dei paletti fissati dalle amministrazioni locali / regionali.
Con pochi elementi stabiliti si possono attuare delle modifiche all’interno dei canoni.

Nei casi qui sopra citati, il risultato ottenuto è un organismo gradevole, coerente e mai banale.
Queste sono le caratteristiche dell’architettura italiana, maggiormente apprezzate da noi stessi e dai turisti che ogni anno contribuiscono alla nostra economia.

Mi piacerebbe pensare a una nazione, la nostra, che si muove in questo senso.
Ponendo delle forti limitazioni formali ed estetiche nell’architettura non solo dei centri storici, potremmo ritrovare il filo rosso dell’arte classica, di cui siamo figli.

In un periodo incerto sotto tutti i punti di vista come quello attuale, a mio avviso sarebbe opportuno lasciarci alle spalle la visione romantica dell’arte come invenzione e tornare all’interpretazione dell’arte come artigianato.

Nella mia professione mi ritrovo ogni giorno a leggere norme che spiegano soprattutto come effettuare il calcolo dei metri cubi di un edificio, come sempre sono disposizioni partorite dopo un eccessivo e deregolamentato utilizzo del nostro territorio.

Sembra che l’abilità del professionista oggi stia nell'interpretare furbescamente tali norme per progettare al linite dei vincoli, allo stesso modo di un elefante che si muove in un negozio di lampadari.

Oggi il problema è diverso, le brutture del nostro paese sono sì frutto delle dimensioni sproporzionate dei mostri che infestano il nostro paese, ma anche di edifici decontestualizzati e deregolamentati.

Oggi mi piacerebbe cominciare a leggere che c’è qualcuno che decide per noi cos’è giusto e cos’è sbagliato.

Noi non siamo più in grado di farlo.
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Ascoltando:
Davis Sylvian, Brilliant Trees, 1984

martedì 26 maggio 2009

FORBIDDEN COLOURS


La crisi che sta colpendo non solo il nostro paese, ma più o meno quasi tutta l’economia occidentale, continua a mietere vittime.
Getta in ginocchio molte persone, che si ritrovano a non riuscire più ad arrivare a fine mese.

I mezzi di informazione sembrano ignorare i fatti, chi ne parla viene apostrofato come uno iettatore.
Un menagramo.

Ma non bastano gesti apotropaici per allontanare la realtà, i problemi non se ne vanno con una grattatina.

Probabilmente chi tira i fili dei mezzi di comunicazione spera che, non parlando della crisi, essa sparisca come per magia.

La polvere può anche sparire sotto il tappeto, ma ormai il pavimento dei palazzi istituzionali somiglia sempre più al territorio campano.
Sotto dune di erba giacciono rifiuti tossici maleodoranti.

Si legge negli occhi la paura delle persone, ma anche qui è nascosta.
Sguardi celati sotto coloratissimi occhiali.

Non nascondo la mia felicità nel notare che, dopo anni di minimalismo vissuto a suon di contrasti optical, tinte martora, cammello e sfumature sui toni di tabacco, di colpo la nostra cromofobia sembra sia ormai un lontano ricordo.

I progetti di architettura sono pregni di colori saturi, verdi acidi che prendono il posto di dimenticati rosa veneziano, rossi amaranto che sostituiscono vetusti intonaci cremina.

Sarà un’idea degli stilisti, sarà una nostra necessità di sorridere in mezzo ai colori, in ogni caso finalmente mi sembra di essere uscito da una coltre nebulosa, figlia di un romanticismo che ci aveva insegnato a odiare i colori.

Un neoclassicismo che per anni ha mentito sull’architettura del passato.

Viva il colore, soprattutto se è su chilometriche gambe fasciate da leggings viola.
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Ascoltando:
David Sylvian, Secrets of the Beehive, 1987

domenica 10 maggio 2009

CROSSROADS

Periodicamente alcuni artisti raschiano il barile, altri fanno migliaia di passi indietro per ritrovare il proprio filo rosso.

L'unica cosa che mi domando è perché lo facciano pubblicamente e non lascino che questo sia semplicemente un cammino interno.

Poco male, il percorso di ritorno al blues delle origini di Eric Clapton, mi è servito per ragionare sull'immagine dell'artista in generale su come un'immagine ci influenzi.
In una performance del buon vecchio "Slowhand", la quale si è tenuta a porte chiuse, se non per le telecamere, le riprese ad un certo punto si sono spostate in un hotel in cui Robert Johnson avrebbe registrato gran parte della sua produzione musicale.

Robert Johnson, per chi non lo conoscesse, è un musicista blues degli anni '30, la cui vita aleggia nel mistero dei riti voodoo e di un fantomatico patto con il diavolo.

Di lui ci rimangono ventinove canzoni, due sole fotografie, due certificati di matrimonio e uno di morte.
Di lui ci rimane anche l’influenza su tutta la musica rock.

Una delle figure più importanti per la musica di tutti i tempi.

In un periodo, il nostro, dove la sovraesposizione mediatica di ogni fatto e di ogni personaggio pubblico è nauseante, comincio ad apprezzare sempre di più le figure storiche di questo tipo.

Per anni ci si è accaniti su Battisti e Mina e la loro scelta di sparire.
Per anni si è cercato di fotografare Syd Barret mentre andava a fare la spesa.

Porto il massimo rispetto per chi sceglie di celarsi, nascondersi dai riflettori e scegliere poche immagini da pubblicare.

Rigiro tra le mani la copertina del cd di Johnson e penso che lui sia questo, ha scelto questa immagine per farsi rappresentare, l’ha decisa e ci rimarrà per sempre.

Uno dei due momenti in cui il suo sguardo ha deciso di “incrociare” l’obiettivo di una macchina fotografica.

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Ascoltando:
Robert Johnson, King of The Delta Blues, 1997

mercoledì 22 aprile 2009

SUMMERTIME

Da piccolo trascorrevo parte delle vacanze in un paesino sperso tra le colline della pedemontana.
La sera ovviamente non uscivo, quindi la televisione e i libri erano i miei unici compagni.
Ricordo con chiarezza, che trasmettevano una trasmissione che si chiamava "I racconti del brivido", serie televisiva che non ho più rivisto.
Un episodio mi rimase particolarmente impresso, il tempo ha fatto il suo corso e i ricordi oggi sono abbastanza vaghi, inoltre non sono riuscito a reperire materiale in rete.
La sensazione che mi è rimasta sul palato è di un'amarissima claustrofobia.

In pratica era rappresentata una famiglia che viveva tranquillamente in casa, finché un giorno gli abitanti si rendevano conto di non poter uscire dalla propria abitazione, uno strano liquido cominciava a spandersi per casa e le pareti cominciavano a restringersi.
In breve accadevano fatti inspiegabili.

L'inquadratura alla fine dell'episodio era rivolta a una bambina che giocava con una casa per bambole.
Si scopriva così che in realtà la famiglia era costituita di pupazzi di plastica che semplicemente avevano acquisito il dono della ragione.

Era tutto finto.
Diventati esseri pensanti.
Il crollo di un sistema.

In questo periodo di sconvolgimenti economici, dove anche le superstar dell'economia si appendono al cappio e altre stanno preparando perfetti nodi scorsoi, penso che la società contemporanea forse non è mai stata pronta a recepire la verità.

A volte mi sento come un Ken che si è svegliato in una casa dalle pareti in una plastica troppo leggera, troppo sottili per isolarmi dalle urla di chi vive in condizioni disumane, in virtù del privilegio di pochi.

Spero solo che quella che sta arrivando non sia un'estate troppo calda da squagliare me e Barbie.

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Ascoltando:
Miles Davis, Porgy & Bess, 1958

giovedì 16 aprile 2009

POWER TO THE PEOPLE

I lettori affezionati del mio blog sapranno già che non amo guardare la televisione, a meno che non trasmettano un film particolarmente interessante.

Ultimamente tendo anche a non interessarmi riguardo la programmazione serale, preferisco uscire, stare in mezzo alla gente, oppure rinchiudermi in camera con un buon libro.
Perfino i telegiornali, mezzo che ho sempre utilizzato per disinformarmi, cominciano a diventare un rumore di fondo mentre sto mangiando.
Principio di autismo cosciente.

La radio diventa così l’unico mio contatto con il mondo, infatti il bunker dalle impenetrabili pareti che mi sono costruito attorno, è invalicabile anche per le persone, le informazioni che colgo “al bar” per me sono semplice folklore.

La sovraesposizione mediatica alla quale è sottoposta la regione dell’Abruzzo in questi giorni è evidentemente schifosa.
Riguardo a questo argomento è stato detto di tutto e di più.
Come al solito si è passati dal cordoglio all’unità nazionale, successivamente sono nate le prime polemiche sfociate nella consueta disputa politica, neanche fossimo allo stadio.

No, gli stadi non si sono fermati.

Stasera ho deciso di prendere parte a questo continuo urlare, a questo odio che porta le persone ad uccidere per un parcheggio rubato.
Mi sono piazzato sulla poltrona, in pigiama e mi sono guardato Anno Zero.
Varie figure si intervallavano, alcune più credibili, altre decisamente fuori luogo.
Ho provato a un certo punto a estraniarmi completamente, come se non conoscessi nessuno, come se non esistessero fazioni politiche, ma solo uomini e fatti.

Quello che ne ho evinto è l’immagine di un popolo, quello italiano con la “i” minuscola e non quello Aquilano, completamente sfiduciato nei confronti delle istituzioni.

Ci sentiamo impotenti di fronte a chi ci governa, come se “lo stato” fosse una piovra che succhia denaro e che si permette di fare ciò che vuole.

Oggi forse ho letto realmente qual’è lo scenario politico di Beppe Grillo, ciò che vorrebbe far fare a questo paese.
Non mi sento di appoggiarlo, ma non si può denigrare una persona che tenta di far capire al popolo che il potere è già nelle sue mani.

E’ coscienza civica.

Denunciare, indignarsi e cercare di fare chiarezza nella nostra quotidianità è un ottimo modo per far funzionare le cose.
Partire dal basso per nutrirci di una coscienza sociale.
Non ce la faccio più a sentire parlare di “lo stato”, “il governo”, “i parlamentari”.
Lo stato siamo noi, punto e basta.

Gli sprechi sono nostri, il cemento lo gettiamo noi, la spazzatura la gettiamo noi.

La democrazia la uccidiamo noi.

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Ascoltando:
John Lennon, The John Lennon Collection, 1982
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domenica 8 marzo 2009

NO PRESSURE OVER CAPPUCCINO

Certi album musicali, alcune canzoni entrano nella tua vita come il comparire di un'allergia: il giorno prima ne sei immune e tutt'un tratto invece non riesci più a farne a meno.

Così, questa volta, mentre l'asfalto correva sotto di me, il sottofondo era quello di Alanis Morissette.

E’ difficile ricordare quante volte mi sono commosso di fronte a una canzone.

Ancora una volta, dalle casse usciva un arrangiamento così perfetto, sembrava che i musicisti si muovessero all'interno di una stanza il cui pavimento era cosparso di gusci d'uovo.

Da certe sovrapposizioni di note, è chiaramente possibile capire che tutto è in un equilibrio, nel quale basta spostare un'inezia, perché tutto crolli.

Come in un castello di carte.

In una scultura di Calder, ogni elemento si regge grazie a un oggetto complementare, che lo equilibra.

Delicate azioni / reazioni, non onde d'urto.

Prendendo atto che al mondo possono esistere persone in grado di piangere ed innamorarsi ascoltando brani dei Rage Against The Machine e gli MC5, mi sono chiesto: perché nella maggior parte dei casi colleghiamo le emozioni a opere d'arte delicate?
Qual'è il motivo per il quale una tenue canzone di Jeff Buckley, una vellutata scultura di Canova, una lieve fotografia di Stieglitz si legano nella nostra mente a intensi momenti carichi di sentimento?

Forse per contrastare le emozioni, di per sé così forti.

L’amore non accetta un contraltare, al massimo una timida spalla.

Quello che non mi riesco a spiegare è la ragione per la quale siamo così attratti e affascinati dalla delicatezza, dall'instabile bilanciamento e dalla precarietà nell’arte, quando poi cerchiamo nella nostra vita di allontanarci quotidianamente da tali sensazioni.

Probabilmente in questa crisi, l’arte diverrà una forma di espressione solida e monolitica, uno sgraziato dinosauro microcefalo che si farà spazio nella precarietà.
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Ascoltando:
Alanis Morissette, Alanis Unplugged, 1999
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lunedì 2 marzo 2009

WE ARE THE PIGS

Sommessamente, mi ritrovo ad osservare il mondo da un oblò, con il risultato però di disinformarmi, come qui spesso denuncio.
La pulce che viveva nel mio orecchio, nell’ultimo periodo ha deciso di piantare famiglia e proliferare.

Da quando l'attuale governo si è insediato, non ho sentito parlare altro che di immigrazione, soprattutto in termini accusatori.
Non vivo pensando che chi siede in parlamento abbia anche il tempo di decidere cosa è meglio dire e cosa è meglio tacere, penso che però il servilismo dei giornalisti e dei direttori possa fare molto in questo senso.

Autocensura.

Giorno dopo giorno ho cominciato anch'io a nutrire sentimenti di odio nei confronti dei delinquenti che, senza permesso di soggiorno, brulicano nel nostro paese.

Iniziavo a pensare che era il momento di arrabbiarsi, di agire.

Per la prima volta ho voluto che venisse ripristinata la pena di morte.
Io.

Poi le idee hanno cominciato a sedimentarsi, le immagini ad essere elaborate, mi sono rilassato...un dubbio si è insinuato...sarà mica l'ennesimo esempio di disinformazione per coprire altre notizie?

L'Ansa batte centinaia di titoli ogni giorno, è compito del direttore di un giornale di selezionarli, così da informare nella maniera più ampia chi riceverà tali comunicati.

Invece ogni giorno tutti i telegiornali propongono le stesse immagini: romeni stupratori.
Giorni fa l'Istat ha deciso di ricordare i dati che ha raccolto inerenti le violenze sulle donne: quasi il 70% degli stupri avviene in famiglia, il 17,4 è ad opera di un conoscente e solo il 6,2 degli stupri denunciati sono commessi da sconosciuti.

Queste sono cose che tutti sappiamo, ma che i mezzi di informazione cercano di farci dimenticare.

Lo stupro per me è paragonabile al delitto, la vittima ne porta con se i segni per tutta la vita, quindi va punito con pene severissime, ma tutto questo parlare di accampamenti, di violenze è pura e semplice disinformazione fuorviante.

Dentro le mura delle nostre case accadono le peggiori angherie immaginabili e noi invece guardiamo la realtà dentro una scatola che vomita falsità.
Lo dicono i dati.

Noi, siamo i maiali.

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Ascoltando:
Suede, Dog Man Star, 1994
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martedì 3 febbraio 2009

ROADS

Da quando ho deciso di non utilizzare più i canonici mezzi di informazione, se non sporadicamente, i miei unici contatti con il mondo sono: la mia piccola realtà quotidiana, degli sprazzi di telegiornale che colgo in pausa pranzo mentre mangio e i rotocalchi di gossip che girano nel bagno di casa mia.

Il pretesto per immortalare i miei “pensieri lasciati a macerare”, questa volta è nato leggendo a riguardo dei concorrenti del Grande Fratello in corso.
Ci viene comunicato che la maggior parte di questi attori incorpora un background ricco di partecipazioni, di comparsate in televisione, insomma non sono proprio dei perfetti sconosciuti.

Anche se la loro è una pessima recitazione, vi leggo la stessa determinazione di chi, con coraggio oppure ignoranza (l’una non esclude l’atra) intraprende un cammino verso un’unica direzione.
Giorno dopo giorno, cercano di entrare nella magnifica scatola piena di luci e immagini, che ci intrattiene con programmi sempre meno eleganti e freschi.
Cercano di entrarvi per l’uscita di sicurezza, in barba a immaginari buttafuori, che si distraggono un attimo.

Questi “backdoor men” entrano dalla porta sul retro mentre di fronte vi è una lunga fila di persone che ogni giorno si preparano, studiano, investendo in se stessi.

Non so se la moneta per diventare famosi, avere il quarto d’ora warholiano, sia ancora il sesso come anni fa.
Magari è con il presenzialismo oggi, insistendo, che si ottengono i risultati.
Un po’ come accade in politica o nelle gestioni statati, esempi similari di sistemi nei quali non puoi essere estromesso, semplicemente vieni traslato.
Così è in televisione, se hai il seno troppo grosso per fare la velina, ti propongono per partecipare al padre dei reality.

Non potrò mai nascondere quel pizzico di invidia che ha pervaso l’inizio dell’età adulta, quando ho cominciato a comprendere che molto del mio tempo lo avevo gettato in divertimenti, passioni, mentre persone anche vicine a me si stavano incamminando verso la loro strada.
Forse ho capito tardi qual’era la mia strada, così ho percorso una quantità indescrivibile di chilometri zigzagando in distrazioni, hobbies, relazioni più o meno importanti.
Sempre con la paura che se avessi intrapreso una strada non avrei mai più potuto tornare indietro.
A volte, guardando soprattutto gli esempi che ci propone la televisione, penso che basterebbe anche solo quella cieca determinazione per arrivare ovunque.
A volte considero che la marcia in più o il talento puoi anche non averlo, basta arrivare nella sala dei bottoni, quando vi giungerai saprai probabilmente cosa schiacciare.
A volte penso che se questi dubbi li ho io che ho più di trent’anni, non oso pensare i bambini, gli adolescenti, nei quali i rapporti interpersonali sono ormai avvizziti.
Guardando dentro la televisione magari penseranno che quello che accade all’interno sia vero.
Come i primi spettatori che videro il film dei fratelli Lumière.
Anche se era ferrata, era una strada no?

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Ascoltando:
Portishead, Dummy, 1994
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mercoledì 21 gennaio 2009

UN MALATO DI CUORE

Il professore Larry Young, biologo della Emory University di Londra, in un articolo apparso su “Nature”, ha annunciato che si stanno avvicinando i tempi in cui basterà ingurgitare una pillola per potersi innamorare.
Fino ad adesso la capsula dell’amore serviva solo per inturgidire membri stanchi oppure anziani, a breve finalmente la magica compressa blu comincerà ad essere chiamata con un nome più appropriato, la pillola del sesso.

Per adesso gli esperimenti sono stati condotti sulle solite cavie.
Dei topolini che vantavano un trascorso da latin lovers, si sono trasformati tutt’un tratto in monogami convinti, questo solo grazie ad una spruzzata di ossitocina.

Questo ormone, infatti, contribuisce a far provare sensazioni di unione con il prossimo.

Tempo fa sembrava fantascienza il poter dirigere le emozioni attraverso pastiglie, oggi gli studiosi ci informano che si potrà, con precisione, stabilire quali sensazioni provare.

Tra poco nessuno potrà più dire “non ti amo più”, semplicemente perché non sarà più una spiegazione plausibile.

Si potrà amare in eterno.

Se il vostro rapporto di coppia si sta logorando, se la noia ha preso il posto alle emozioni, basterà ingoiare un cachet appena svegliati, girarsi dall’altra parte del letto e baciare uno zombie spettinato, per giunta con il consueto alito pesante mattutino.

Guerre chimiche combatteranno dentro di noi, arriveremo ad un punto in cui non avremo più padronanza delle nostre emozioni, ci troveremo insonni, a digiuno, sospiranti e sognanti anche da soli, magari solo perché in preda a un’overdose di ossitocina.

Ho sempre preferito le sostanze naturali a quelle chimiche, le prime provocano reazioni controllabili, razionali.

Scegliere di bere una bottiglia di vino assieme a una donna, per sciogliere il ghiaccio, mi è sempre parso più romantico di sognare intrugli amorosi, da sciogliere nell’acqua, per poter ottenere lo stesso risultato.

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Ascoltando:
Fabrizio De André, Non al denaro, Non all'amore Nè al cielo, 1971
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