martedì 26 maggio 2009

FORBIDDEN COLOURS


La crisi che sta colpendo non solo il nostro paese, ma più o meno quasi tutta l’economia occidentale, continua a mietere vittime.
Getta in ginocchio molte persone, che si ritrovano a non riuscire più ad arrivare a fine mese.

I mezzi di informazione sembrano ignorare i fatti, chi ne parla viene apostrofato come uno iettatore.
Un menagramo.

Ma non bastano gesti apotropaici per allontanare la realtà, i problemi non se ne vanno con una grattatina.

Probabilmente chi tira i fili dei mezzi di comunicazione spera che, non parlando della crisi, essa sparisca come per magia.

La polvere può anche sparire sotto il tappeto, ma ormai il pavimento dei palazzi istituzionali somiglia sempre più al territorio campano.
Sotto dune di erba giacciono rifiuti tossici maleodoranti.

Si legge negli occhi la paura delle persone, ma anche qui è nascosta.
Sguardi celati sotto coloratissimi occhiali.

Non nascondo la mia felicità nel notare che, dopo anni di minimalismo vissuto a suon di contrasti optical, tinte martora, cammello e sfumature sui toni di tabacco, di colpo la nostra cromofobia sembra sia ormai un lontano ricordo.

I progetti di architettura sono pregni di colori saturi, verdi acidi che prendono il posto di dimenticati rosa veneziano, rossi amaranto che sostituiscono vetusti intonaci cremina.

Sarà un’idea degli stilisti, sarà una nostra necessità di sorridere in mezzo ai colori, in ogni caso finalmente mi sembra di essere uscito da una coltre nebulosa, figlia di un romanticismo che ci aveva insegnato a odiare i colori.

Un neoclassicismo che per anni ha mentito sull’architettura del passato.

Viva il colore, soprattutto se è su chilometriche gambe fasciate da leggings viola.
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Ascoltando:
David Sylvian, Secrets of the Beehive, 1987

domenica 10 maggio 2009

CROSSROADS

Periodicamente alcuni artisti raschiano il barile, altri fanno migliaia di passi indietro per ritrovare il proprio filo rosso.

L'unica cosa che mi domando è perché lo facciano pubblicamente e non lascino che questo sia semplicemente un cammino interno.

Poco male, il percorso di ritorno al blues delle origini di Eric Clapton, mi è servito per ragionare sull'immagine dell'artista in generale su come un'immagine ci influenzi.
In una performance del buon vecchio "Slowhand", la quale si è tenuta a porte chiuse, se non per le telecamere, le riprese ad un certo punto si sono spostate in un hotel in cui Robert Johnson avrebbe registrato gran parte della sua produzione musicale.

Robert Johnson, per chi non lo conoscesse, è un musicista blues degli anni '30, la cui vita aleggia nel mistero dei riti voodoo e di un fantomatico patto con il diavolo.

Di lui ci rimangono ventinove canzoni, due sole fotografie, due certificati di matrimonio e uno di morte.
Di lui ci rimane anche l’influenza su tutta la musica rock.

Una delle figure più importanti per la musica di tutti i tempi.

In un periodo, il nostro, dove la sovraesposizione mediatica di ogni fatto e di ogni personaggio pubblico è nauseante, comincio ad apprezzare sempre di più le figure storiche di questo tipo.

Per anni ci si è accaniti su Battisti e Mina e la loro scelta di sparire.
Per anni si è cercato di fotografare Syd Barret mentre andava a fare la spesa.

Porto il massimo rispetto per chi sceglie di celarsi, nascondersi dai riflettori e scegliere poche immagini da pubblicare.

Rigiro tra le mani la copertina del cd di Johnson e penso che lui sia questo, ha scelto questa immagine per farsi rappresentare, l’ha decisa e ci rimarrà per sempre.

Uno dei due momenti in cui il suo sguardo ha deciso di “incrociare” l’obiettivo di una macchina fotografica.

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Ascoltando:
Robert Johnson, King of The Delta Blues, 1997