giovedì 23 luglio 2009

FLUX + MUTABILITY


E’ passato un secolo da quando Adolf Loos definiva l’ornamento un delitto.
In campo architettonico questo segnava una rivoluzione, la progettazione minimale e modulare avrebbe marchiato gli anni a venire.

Come in ogni rivoluzione artistica che si rispetti, si cercava di sfuggire ad un passato caratterizzato da orpelli, vetrate colorate e forme naturalistiche, i progettisti erano sempre all’inseguimento di effimeri stili, i quali comunque cominciavano a vacillare e a perdere forza.
Per farla breve, il brutalismo in architettura, il design semplice e l’inseguimento di forme pure lecorbuseriane hanno a poco a poco ucciso generazioni di artigiani che si tramandavano saperi e conoscenze da centinaia d’anni.

La noia però è una costante dei giorni nostri e l’impeto dell’architettura barocca, decretato dalla necessità di stupire e provocare l’estasi nel fedele, si ripropone ai giorni nostri con un linguaggio diverso ma con le stesse aspettative.

Le trame intricate degli impianti planimetrici di Eisemann, le strutture antropomorfe di Calatrava, le forme spezzate degli edifici di Zaha Hadid e Steven Holl, sovrappongono geometrie ad altre geometrie con l’intento di lasciarci a bocca aperta.
Vi sono matrici che si ripetono, si accavallano, mutano per generare configurazioni complesse che la nostra mente non è più in grado di elaborare, se non attraverso processi stocastici.

Migliaia di cellule si replicano e mutano, come malattie incurabili, trasformandosi in arte agli occhi del fruitore contemporaneo.

Ultimamente mi è capitato in mano un progetto ampio per una città del Levante.
Sono quei progetti che le riviste di architettura non pubblicano, i direttori e le redazioni sono ancora legati all’urbanistica di Gregotti tutta cardo e decumano, altrimenti strizzando l’occhio alle ultime tendenze.

Sono fermamente convinto che una collettività, che ha una visione completamente diversa di noi del mondo, non abbia bisogno di città progettate con la carta millimetrata.

Se la nostra mente non riesce a concepire disegni articolati, il progetto si riduce all’abbozzo di un accampamento romano.

Trasporlo in Cina è uno stupro bello e buono.

Come è possibile disegnare una città su una griglia regolare, in un paese che per secoli ha rifiutato la linea dell’orizzonte come scelta di rappresentazione?

Mi incanta sognare che il masterplan che mi è capitato in mano, sia una forma di protesta, la necessità inconscia di disegnare paesaggi da parco giochi, luoghi dove la complessità è generata dal caos.

Nessuna regola apparente se non quella di un equilibrio instabile.

Forse una nuova forma di contrattacco consiste nel fuggire la ripetizione: progettare al limite della follia edifici fini a se stessi che non dialogano con gli altri.

Nascono piccole bomboniere dalle facciate che si sovrappongono, velature e decori replicati che ruotano e traslano per rendersi all’apparenza nuovi.
Si muovono e respirano assieme a chi utilizza queste macchine contorte.

Ci dimentichiamo che la bellezza della complessità è un lento sovrapporsi di vuoti e pieni, spazi e volumi, visuali e occlusioni, fatte di materiali che invecchiano in maniera non omogenea.

Altre piccole Mestre stanno nascendo in tutto il mondo, se un edificio da rivista patinata si costruisce vicino a baracche in India, dall’altra parte del pianeta un ponte viene costruito in un paese in cui mancano le altre infrastrutture.

Le contraddizioni sono frutto di una miope visione.

La nostra idea della progettazione articolata è limitata semplicemente perché non siamo in grado di immaginare tempistiche che vanno oltre la data della nostra morte.

Questo è un problema che in tutte le civiltà e generazioni precedenti alla nostra non si era mai posto.

Il cuore del nostro essere effimeri, è la paura di non avere abbastanza tempo per porre la nostra firma su questo capolavoro che è il mondo.

Come bambini svogliati in gita, imbrattiamo così un’opera d’arte che la nostra ignoranza ci impedisce di comprendere.
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Ascoltando:
David Sylvian & Holger Czukay, Flux + Mutability, 1989

mercoledì 15 luglio 2009

CARA


Grazie a un diverbio scoppiato in rete tra me e una mia amica, mi sono rimesso a ragionare sul tema del viaggio.

La partenza come necessità per spiccare il balzo.

Spesso sui mezzi di informazione si sente parlare di fuga di cervelli, di luminari che fuggono dall’Italia in cerca di un lavoro più decoroso.
Penso che per un ricercatore questo sia necessario, l’Italia in questo campo è un po’ il fanalino di coda.

Per quanto riguarda infinite altre professioni, ritengo che la rete globale abbia accorciato le distanze, tanto che essere a Voghera o New York sia quasi la stessa cosa.

Posso essere d’accordo sulla questione che rimanere nello stesso luogo, magari in un paesino di provincia, sia poco stimolante.
Ma il problema del poco stimolo è dentro noi, non nel luogo che ha invece stimolato generazioni intere.

Il piccolo Bastian leggeva il libro “La Storia Infinita” nella soffitta della sua scuola.
Con lo scorrere delle parole, delle pagine, a poco a poco gli si apriva un mondo nuovo, una storia completamente diversa dalle altre, in cui l’ultima pagina non significava la fine del sogno.

A volte mi sento come il piccolo personaggio principale di questa storia.

Fisicamente non ho mai viaggiato molto, anche se ho fatto molti chilometri guardando il mondo scorrere dai finestrini dai mezzi pubblici di questa megalopoli padana.

Data la mancanza di mezzi e di genuini stimoli per partire, ho sempre viaggiato molto con la mente.

Intere storie si aprivano nei libri che leggevo in spiaggia.
La strada del ritorno non era mai quella dell’andata.
Passeggiando per la stessa strada, dopo infinite volte, scovavo un dettaglio nuovo.
Tentavo di trovare nuovi colori e forme nel paesaggio che si proiettava dietro la finestra della mia camera.
Cercavo di conoscere gente nuova, angoli nuovi.

Sono giochi che faccio ancora.

A volte basta farsi uno sgambetto da soli, per osservare una cosa che era sotto il nostro naso da tempo.

Se è vero l’aforisma che ho trovato qualche giorno fa in rete “La felicità è una direzione e non un luogo”, non si parte per trovare qualcosa di nuovo.

Il tema è il viaggio e la meta.

Proseguendo nel ragionamento, la meta sarà felicità per poco tempo però, perché parte integrante del viaggio.
Appena diverrà “luogo” sorgeranno i problemi di prima.

Allora servirà un nuovo viaggio e una nuova meta.
Nuovi viaggi e nuove mete.

L’aforisma non specifica quale sia la direzione della felicità, ma semplicemente il fatto che andare in una direzione significhi essere felici.

Il mio è un viaggio continuo.

...ma so già cosa pensi, tu vorresti partire
come se andare lontano fosse uguale a morire...

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Ascoltando:
Lucio Dalla, Dalla, 1980